Diario

L'Homo selvadego abitatore delle Alpi

L'Homo selvadego abitatore delle Alpi

Un personaggio leggendario abitava i boschi della Valgerola: l’Homo selvadego.
Per conoscerlo dobbiamo entrare nella camera picta del museo a lui dedicato, a Sacco, dove è affrescato accanto alla porta d’ingresso.
Si tratta di un uomo ricoperto di pelo e armato di clava, con accanto una sorta di fumetto: “E sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura”.
La leggenda dell’homo selvadego rimanda ai tempi in cui il bosco, oltre che da animali e piante, era abitato da un essere, appunto, dalle sembianze e dai costumi in parte umani, in parte animaleschi: un essere delle selve, quindi “selvatico”.
Nella rappresentazione di Sacco l’Homo selvadego è accompagnato da un’altra figura “parlante”, l’Arciere, accompagnato da un cartiglio con la scritta: "Sonto uno che senza malitia de pecati...".
Rossana Sacchi, nell’articolo “Migrazioni iconografiche e vicende storiche dell'Uomo Selvatico” (in “Sondrio e il suo territorio”, 1995) sottolinea il legame tra i due personaggi che rappresentano “l'Uomo nel suo stato primordiale - l'uomo selvatico per natura, il gigante peloso - e nel suo stato evoluto, abitatore di un mondo ormai salvato e redento - il piccolo arciere, che si presenta proprio senza malitia de pecati."

Le genti di montagna hanno spesso attribuito alla figura dell’homo selvadego caratteristiche ambivalenti: icona di bontà e sapienza dell'uomo in armonia con la natura, da una parte, icona di bestialità dall'altra.
Da un lato fu, infatti, proprio lui ad insegnare agli uomini le arti che permisero loro di sopravvivere alla durezza dell’ambiente montano: la coltivazione dei campi, l’allevamento degli animali, l’apicoltura, l’arte casearia, l’arte dell’estrazione e della lavorazione dei metalli. Non si mostrò quindi ostile nei confronti degli uomini, ma preferì ritirarsi nelle valli più nascoste. A chi gli mancherà di rispetto – ammonisce nella sua rappresentazione di Sacco - si limiterà a infondere paura, come per ricordare all’uomo che l’offesa a lui, essere selvatico in simbiosi con la natura, è un’offesa alla Natura tutta, quindi è una gratuita forma di violenza.

L’homo salvadego mostra però anche tratti inquietanti per la sua forza, rappresentata dal robusto e minaccioso bastone che impugna, presente anche nello stemma della Lega delle Dieci Giurisdizioni, una delle Tre Leghe Grigie che dominarono la Valtellina dal 1512 al 1797.

Diverse sono le testimonianze figurative di questa figura mitica: oltre a quella di Sacco, le due della Porta Poschiavina di Tirano (ora quasi illeggibili) e quella del monte Sassalbo, presso Poschiavo.
Le leggende legate all’uomo selvatico della Val Poschiavina ci parlano ancora di una figura minacciosa e rasserenante al tempo stesso.
Si credeva che una stirpe di uomini di corporatura gigantesca e forza eccezionale vivesse fra le più alte rupi del versante orientale della valle: da un lato tale stirpe era assai temuta, perché, come racconta Aurelio Garobbio (in "Montagne a valli incantate", 1963) “(...) la si credeva costituita da esseri feroci, capaci, in qualche caso, di aggredire contadini e pastori ed anche mangiarseli”.
Dall'altro, però, si raccontava della loro prodigiosa abilità, che ne faceva esseri tutt'altro che rozzi e crudeli.
Una volta, in particolare, si narra che i salvanchi, scesi dal Sassalbo, piombarono all'improvviso sui pascoli dell'alpe Sassiglione, dove i pastori erano intenti a fare il burro. Questi, ammutoliti e sgomenti, li videro appressarsi al loro latte ed al loro siero, con quel volto così inquietante che richiamava le fattezze dell'orso più che dell'uomo. Ma non volevano far razzia, né compiere opera alcuna di violenza: erano, anzi, allegri, si rivolgevano loro con frasi in una strana lingua, mai udita, ma con tono amichevole e scherzoso. I salvanchi, messa mano agli strumenti dell'arte casearia, portarono a compimento l'opera dei pastori e confezionarono un burro eccellente e squisito, compatto e dall'invitante colore biondiccio. Rivolsero, poi, la loro attenzione al siero, dal quale trassero, con una tecnica mai vista dai pastori, cera purissima, prodotto un tempo assai prezioso. Alla fine, improvvisi com'erano venuti, se ne andarono, cantando allegre canzoni con melodie strane e bizzarre. Quando i pastori si riebbero dalla sorpresa, tentarono, e lo fecero più e più volte, di ripetere le operazioni dei salvanchi, ma non riuscirono mai a confezionare un burro altrettanto squisito e, men che meno, a trarre dal siero la cera.”

(per l'articolo siamo in parte debitori di Massimo Dei Cas, www.paesidivaltellina.it)